"Ottimista, ma almeno punta in una direzione sensata", scrive Massimo Sandal (h/t).
Lo vedo anche sulla mia pagina Facebook, dove ho dovuto bannare sia "pro-Hamer" che "anti-Hamer" per i toni da baretto di periferia. Ad entrambe le 'tribù' le argomentazioni dell'altro appaiono incredibilmente stupide, e questo spinge molti ad attacchi personali e a sarcasmi fomentati dal voler soddisfare la propria audience.
In tutto questo, noi giornalisti reagiamo semplificando (basta guardare gli articoli che scrivono del "metodo Hamer" che sarebbe basato su "conflitti psicologici") e ci stupiamo di come un articolo ben ragionato non sortisca effetto. Eppure gli studi di Walter Quattrociocchi sono noti da anni, ormai.
Come uscire da questa impasse? La giornalista Amanda Ripley offre ottimi spunti (in inglese, qui) ma, appunto, la situazione è complessa e di non facile soluzione.
Dal canto mio, come ho scritto ormai milioni di volte rispondendo ai commenti più disparati e alle calunnie più fantasiose, la mia personalissima risposta è l'empatia. Che non significa gentilezza sempre e a tutti i costi (i ban lo dimostrano), che risulterebbe falsa: ma cercare di capire perché quella persona sia convinta di una cosa tanto assurda, tanto pericolosa, tanto dolorosa.
Scopriremo che dietro c'è un intero universo fatto (per fortuna) non di sola razionalità, di valori e desideri che spesso sono anche i nostri (voglia di lottare contro le ingiustizie, far parte di una società più equa, curare tutti da tutto), e di fronte a problemi complessi come quello di una malattia ognuno risponde in base a questa "rete" che si è creato.
Questo non significa che chiunque possa venire qui e sostenere falsità pericolose per la salute pubblica, ovviamente. Ma nemmeno urlare, prendere in giro, dare degli "asini" a persone che non hanno studiato -ma hanno paura come e più di quelli che l'hanno fatto- serve a nulla: di nuovo, sono gli studi a dimostrarlo.
E allora, nel nostro piccolo, cerchiamo di capire, ragionare, rendere ricco il nostro discorso con fatti, documenti ma anche empatia. Altrimenti ci saremo sfogati su questi tasti, riceveremo una pacca virtuale sulle spalle dalla nostra tribù, ma avremo reso il mondo un posto ancora più irrazionale e confuso. E non è per questo che ho iniziato a fare giornalismo, tanti anni fa.